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Vento del nord



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Autore: GIANMARIA FERRANTE
Editore: GOLDEN PRESS GENOVA
Disponibilità: IMMEDIATA
Pagine: 243
ISBN: 978-88-89558-89-8
Prezzo: € 20,00
DESCRIZIONE

Corposa ed intensa opera in lirica, questo Vento del Nord di Gianmaria Ferrante raccoglie, attorno ad uno stile controllato in ogni minimo guizzo espressivo, una tensione emotiva e affabulante di straordinario spessore. Il passo è continuo, come un incedere deciso ed instancabile, vibrante nei versicoli minimi che fanno unità della parola, senza bisogno di porla al centro ed esaltarne la forma e la forza poiché ogni verso è parola ed ogni parola è verso. Purtuttavia la lettura non procede mai a strappi, non indugia compiaciuta sulla felice trovata simbolica; scivola invece via con un’aura di racconto, di volta in volta interrotto, ripreso, conchiuso e definito.
L’articolazione della raccolta in tre sezioni distinte è qualcosa di molto diverso dalla catalogazione antologica; i tre blocchi, Lo specchio d’argento, La mia valle, Un sentiero, ritraggono tre posizioni differenti, tre atmosfere specifiche e probabilmente tre disposizioni d’animo e di impianto di osservazione che delineano caratteri peculiari e del tutto autonomi.
La prima sezione avanza arrembante, nei suoi agili e filiformi componimenti, profilandosi come la più inquieta ed inquietante. Pervasa da atmosfere gelide e arricchita di particolari fulminei, osservati con la cura di un intreccio di simboli, di rimandi tanto interiori quanto universali, di situazioni e dimensioni oniriche, di pensiero e di incubo, di vertigine e pathos, assorbe una quantità indicibile di emozioni forti, di autentici pugni allo stomaco per l’icasticità dei fotogrammi di cui è composta.
Il portato squisitamente poetico poggia su un’architettura solenne di raffinate allitterazioni, risonanti e gorgoglianti nella loro fuga consonantica, di accozzi e stridi, sfrigolii ed attriti semantici. Risulta fascinosamente cupa l’atmosfera dello “specchio d’argento”, confine del tempo, segnale di ogni possibile storia che leghi un prima ad un dopo senza troppe illusioni su un’eventuale progressione in positivo. Lo scenario si presenta infatti sapidamente lugubre, di una compattezza espositiva quasi maniacale, poiché insistita nell’impietosa osservazione del rovescio, di qualunque gesto spinto all’estremo delle sue conseguenze esistenziali; un gesto ovunque stagliato nel gelo dell’assoluto, forte di una presenza puntuale dell’orrore realistico, che a tratti si avvale di improvvise comparse, di maschere fredde, ferocemente consapevoli del proprio effetto straniante. Lascia d’altronde intravedere, pur nella velatura delle sovrapposizioni metaforiche e metamorfiche, un incontro di generazioni, un luogo - mentale e non fisico - dove il tempo ha più facce e tende ad offrire la propria angolatura più perfida nel mostrare la visione della realtà, quella più saporosa e crudele: il confronto tra passato e futuro, che lascia ad entrambi, beffardo, lo stigma dei vinti. Si pensi ad esempio allo “zimbello di un editto arcaico”, quando irrompe sulla scena presentandosi quale goffo ed esilarante alfiere del nulla, in groppa ad un’irridente cavalcatura (asino, e per giunta bolso, ovvero la negazione di qualunque valenza mitica del cavaliere).
Ma sono soprattutto gli oggetti disseminati nei versi-parole ad imprimere nel respiro della lettura le più orride immagini: il vitello sgozzato, la maschera di ferro, le pietre dei muri, i viandanti, i cavalieri e i cavalli; figure senza tempo, emergenze del passato, gruppi marmorei con la loro evanescente pesantezza di statue. E poi le violenze, il sangue, gli stupri. Rarissimi i momenti di abbandono estatico, garantiti soprattutto da presenze femminili o da incanti in cui il paesaggio (in questo caso le Murge) traluce e trionfa. Si tratta di sporadiche anticipazioni delle aperture contenute nelle sezioni successive, alle quali sembrano rimandare, in maniera silente ed allusiva, pur senza perdere il ritmo di una folla ossessionante di presenze angoscianti, di parvenze in chiaro-scuri polverosi, di emergenze psichiche.
La sezione a titolo La mia valle scava nei reconditi anfratti di un rapporto esclusivo con la natura, in particolare quella dell’Alta Val Seriana, nelle Prealpi Orobiche. Qui a campeggiare sono memorie mitizzate di un’infanzia che attribuisce valore, e vigore, sognante e misterioso a tutta una serie di legami esclusivi con il paesaggio e con le sue figure di riferimento. Gli animali stessi assumono significati profondi e arricchiscono la schiera gloriosa di personaggi simbolici, di luoghi, angoli, pietre, percorsi montani.
Un sentiero sposta il raggio di osservazione su scenari prevalentemente marini e campestri, più chiari nella scelta delle tinte e decisamente più distensivi nei contenuti, benché non venga mai meno la tensione robusta dei versi che proseguono uniformemente l’impostazione stilistica iniziale dell’intera opera.
La chiusa è affidata a grandi canti d’amore, con qualche indulgenza al lirismo romantico ma ugualmente tesi nell’affermazione di uno spessore inevitabile nell’attribuire al percorso compiuto da due anime intrecciate, attraverso gli urti dell’esistenza, i percorsi della storia, lo scandaglio del passato e dei tanti possibili passati a cui fare riferimento.
Si stempera nel finale, in qualche modo gioiosamente, la ruvidezza che aveva aperto questo eccellente volume poetico di Ferrante, con velato riferimento, già avvertito nella precisa tripartizione, al modello classico della comoedia.


 
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