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Metropolis



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Autore: GIANMARIA FERRANTE
Editore: GOLDEN PRESS GENOVA
Disponibilità: IMMEDIATA
Pagine: 208
ISBN: 978-88-89558-73-7
Prezzo: € 20,00
DESCRIZIONE

La storia è probabilmente il punto di partenza adatto ad affrontare la lettura di questa nuova opera di Gianmaria Ferrante. Perché la storia dell’uomo è storia di città, dagli agglomerati di palafitte, ai borghi medievali fino alle moderne metropoli. Il gioco di mimesi poetica ruota infatti molto spesso intorno alla gustosa contrapposizione tra le risultanze di quanto di più moderno abbiamo intorno, nel cemento dei nostri spazi urbani, e le miserie universali di un’umanità in decadenza.
Ferrante ha già affrontato, in alcune delle sue raccolte più recenti, il tema della città, ma non a caso in La città bianca e Mediterranea , pur nel contrasto di appunti problematici e nella forte presenza di figure umbratili ed orfiche, lasciava scorgere in filigrana riferimenti ad un’armonia delle linee propria delle civiltà classiche, ovvero di un mondo compiuto, riuscito, preciso; abbondavano in quel caso, come è giusto, gli eroi, i guerrieri illuminati da una forte luce solare, impreziositi dal barbaglio rilucente di armi ed armature: il paesaggio di sfondo era chiaro, pareti bianche di calce battute dal vento del mare e città del Mediterraneo, richiami epici ad un mito perenne.
In questo Metropolis il referente storico è indubbiamente il medioevo, come magazzino di risulta di un’umanità in decadenza, che vive una regressione destinata probabilmente a durare secoli come l’altra che già si è conosciuta.
Il richiamo alla pestilenza dell’incipit è un segnale di questo nuovo medioevo misurabile in tanti degli atteggiamenti che assume l’uomo del nostro tempo, oltre che nelle fastose ed inquietanti presenze di scenografie ed oggetti che si possono agevolmente far combaciare ad altrettanti corrispondenti effetti di derivazione medievale. Tutto ciò è maggiormente impressionante quanto più l’emergenza di linee urbanistiche e figure umane ci consente di sostituire, senza grandi stravolgimenti, al concetto di borgo quello di metropoli contemporanea.
Nelle liriche colpiscono in numerose occasioni immagini fortemente icastiche, con un’insistenza che l’autore dimostra di dedicare in particolare ai dati fotografici orridi, sottolineando istantanee dell’orrore visitato a spezzoni, a schegge, a lampi, come nell’attualissima danza macabra di “Cento volti”. La novità del “monaco cittadino” chiarisce, laddove ce ne fosse bisogno, lo splendore del tema affrontato e, va detto, seguito e rispettato con una diligenza ammirevole e non comune nell’attività dei poeti d’oggi; non una sola delle poesia contenute in questa raccolta potrebbe, a mio avviso, figurare agevolmente anche in altre raccolte.
Il parallelo tra il medioevo propriamente detto, quello curtense, e il medioevo metropolitano moderno, cioè delle metropoli, si fa evidente anche nella commistione fra manifestazioni di popolo antiche e attuali, in un gioco volutamente allusivo e sognante, di sovrapposizione, di dissolvenza incrociata tra la naturale rappresentazione immaginifica del centro urbano medievale e la puntualizzazione di carattere attuale.
E che dire dell’attrito acutissimo e di splendente effetto tra il compianto per l’amico scomparso e la parata di suoni-rumori-odori-colori di carattere prettamente metropolitano? Il senso della morte come viatico perenne dell’individuo medievale viene messo a confronto contrastante con “la pompa / sotterranea/ a cavallo! di una portiera / bloccata”, dove tra l’altro si alzano le “grida / stridule / di ragionieri / in colonna”.
Visioni di fabbriche annerite dal fumo e periferie, siringhe, drogati, spacciatori costituiscono il materiale di primo piano di un’indagine che definire lirica può effettivamente risultare riduttivo. Di perfettamente soggettivo in effetti c’è solo lo sguardo dell’autore ma non esiste un solo verso in cui a quello sguardo non corrisponda l’immediato riconoscimento, da parte di chi legge, delle atmosfere che vengono evocate come facenti parte dell’orizzonte quotidiano di ciascuno. Quindi un’idea generalmente condivisa, il sentire comune di un popolo, come nei racconti degli aedi o dei rapsodi che parlavano del loro mondo ad altri del loro stesso mondo. E non dicevano di se stessi.
Spesso i componimenti si completano con l’inatteso e inusitato movimento di figure, per lo più animali o persone (ma in taluni casi il confine è quantomeno labile), che balzano come da uno sfogo improvviso, un’emergenza dell’equilibrio precario dell’inconscio che materializza visioni riproducendole dal magma emotivo la cui pressione è esercitata proprio dall’affollarsi di condizioni metropolitane.
Notevole l’immagine ricorrente del piccione stampato sull’asfalto, che effettivamente vale un cartellone pubblicitario luminoso, o un’affissione comunale, tanto l’occhio cittadino è avvezzo a vederne. E per coverso, proseguendo il gioco di sovrapposizione storico-temporale, vale la quotidiana visione della morte a cui erano particolarmente sensibili, oltre che abituati, i cittadini di mille anni fa.
Eppure Ferrante va oltre e lo fa con la lama affilatissima dell’osservatore perfetto. Non basta infatti paragonare la nostra metropoli al borgo medievale pensando di riferirci solo ad accidenti esterni, rovelli da storiografo e diletti da umanista curioso che guarda alla superficie delle cose per compilare il suo bel temino; Ferrante ci getta, con scientifica volontà di poeta (penso a Jacopone da Todi), nello strapiombo dello sconforto quando ci mostra ciò che siamo di effettivamente medievale: è il riferimento all’inquietante e tragica descrizione impietosa dello spuntino del terziario a mezzogiorno, in uno spersonalizzato self service, dove “gli uomini macchina” del terzo millennio entrano nella storia con la medesima dose di dignità con cui, prima del mille, una torma affamata di pezzenti veniva avviata al grande businnes delle crociate. E che dire di quelle “scarpe / da boscaiolo / fasullo” con cui vengono descritti i ragazzi vestiti alla moda, emblema di quanto da ormai trent’anni siamo costretti a vedere nelle nostre strade, mania dopo mania, trovata dopo trovata, tra una strumentalizzazione consumistica e l’altra, benché si assomiglino tutte maledettamente!
Naturalmente Ferrante, che è poeta raffinato, non si lascia trascinare dalle sue medesime intuizioni nel gioco al massacro della critica sociologica: si limita al contrario a tratteggiare, abbozzando l’intuizione e abbandonandola subito, lasciandola giustamente cadere nel calderone delle riflessioni del lettore, in quanto la sua poesia, raggiunto il culmine della corrente emotiva che voleva creare, sperde il suono e cessa, dissolvendosi. L’intento polemico quindi non è mai evidente, anzi, forse non esiste nemmeno, in quanto, purtroppo, la consapevolezza dell’inutilità dell’operazione critica è presente al poeta. Restano piuttosto il dato strumentale, oggettivo, la visione storica, l’annotazione precipua di un tempo e di uno stile di vita che conosciamo probabilmente tutti e per questo non siamo abituati a definire nelle sue linee più raccapriccianti. È come se volessero ricordarci proprio questo i numerosi senzatetto che popolano Metropolis, in cui la forza visiva di alcuni versi ha il piglio pittorico di un’interpretazione su tela, a strappo, a macchia violenta di colore. È così per i tanti randagi, per gli storpi, per il richiamo agli “incidenti sul lavoro”, tanto per usare un termine caro alle cronache ed entrato nel lessico collettivo con la stessa pacifica serenità con cui pronunciamo la parola “biscotti” o decoder “digitale”. Tali emergenze affiorano dall’inconscio dell’umanità tutta e costituiscono una sorte di intermezzo, di volta in volta presente all’interno della galleria di immagini perfettamente compiuta ed ordinata nella lettura fenomenica della metropoli.
A proposito del lessico, quello scelto da Ferrante è senza dubbio allusivo e talvolta addirittura beffardo: “crollano / cifre enormi / dagli orizzonti /finanziari”; la Borsa, la Stampa e la Banca diventano quasi nuove tessere di moderni Tarocchi, mentre altri punti fermi del medioevo vero si dimostrano immutabili: il Duomo e la Morte.
Le vie scelte per tentare di opporsi muovono solo a pietà, o a tenerezza, ma il poeta non disdegna nemmeno l’ironia feroce: nei versi risultano ridicoli persino i “finti monaci” arancioni, una presa in giro dell’alternativa – che non appare consistente – alla odierna ottusità feudale. Gatti, sacchi dell’immondizia, freddo e gelo; e poi mostri meccanici in movimento, dalla descrizione compiutamente antropomorfa e spaventosa; persino una processione religiosa, vestigia di un medioevo trionfante, diventa rombo minaccioso e violento. La città talvolta è riconoscibile come Milano, ma la sua espansione concettuale a qualunque agglomerato urbano dei nostri anni è palese.
Nella sezione “Frammenti del passato”, che prosegue l’andamento sia ritmico che contenutistico della precedente “Ancora voi”, si fanno fosche e simboliche, quindi meno immediate, le appartenenze al parallelo storico scaturite dalle immagini. Il ruolo del cavaliere errante dell’epica medievale fa capolino come timido bagliore di umanità fulgida venendo attribuito, con un triste eppure delicato omaggio, ad un giovane folle. Affiorano immagini di sodali scomparsi, baluginando rare nel trambusto sordo e metallico, privo di sentimento, che tratteggia le linee del presente come in un amaro schizzo di matita, ripetuto con tratto differente ma all’infinito.
La sezione conclusiva, come la poesia che mette fine alla storia della raccolta, affidano la loro voce alla significativa preghiera del cantore. L’epica classica avrebbe dettato la necessità di inserirla nell’invocazione proemiale, ma qui siamo nel “medioevo”, quindi persino tale collocazione è perfettamente in linea con i tempi.


 
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